venerdì 1 novembre 2013

La grande bellezza - Paolo Sorrentino


Giuro di averci provato. Ho iniziato a guardare La grande bellezza facendo scomparire tutti i timori che, ogni volta che mi preparo a vedere gli ultimi film di Sorrentino, mi assalgono in maniera prepotente. Mi dicevo che uno come lui avrebbe sicuramente compreso che le sue ultime prove erano sempre più estetizzanti e sempre meno ricche di contenuto. Probabilmente la trasferta americana di This must be place era stata archiviata e il regista aveva compreso che certe storie e certi ambienti non erano nelle sue corde, magari la morte del divo Giulio l’aveva riportato a una considerazione più umana dell’esistenza che non ha bisogno di continui voli della macchina da presa per essere celebrata (o criticata). E probabilmente, mi dicevo, pure Toni Servillo avrà compreso che nella recitazione bisogna anche sapere lavorare di sottrazione piuttosto che dimostrare continuamente quanto si è bravi. Inizia il film e la frase di Louis Ferdinand Céline messa come incipit mi mette di buon umore, Céline lo scrittore che amo più di ogni altro… non poteva esserci migliore presentazione! Naturalmente conoscevo già il soggetto del film e l’affresco della capitale nei nostri poveri tempi mi sembrava uno spunto ottimo.
Ma che colpa posso avere se dopo i primi quindici minuti la coppia Sorrentino – Servillo riescono a darmi più colpi di un samurai alle prese con una epica crisi di astinenza? La macchina da presa non si ferma un attimo, dolly, carrelli, piani sequenza. La faccia di Servillo sembra il campionario delle facce dell’attore su quei vecchi manuali di espressività teatrale. Tutto portato all’eccesso in modo insopportabile… ma io sono buono e resisto, sono i tempi mi dicevo… sta descrivendo il nostro presente e allora forse avrà pensato che caricare tutto in questo modo è necessario per farci entrare dentro il film. Continuo la visione e cerco di respirare bene. Ma niente, Servillo non la smette di attaccarsi ai drappi e Sorrentino si sente sempre più Orson Welles (senza esserlo). Arriva Verdone e, nonostante gli sforzi, le sue capacità recitative non sono certo eccelse. Ma questo è niente rispetto al brivido provato all’apparizione della Ferilli, paura allo stato massimo. Sorvoliamo che la Ferillona entra in campo subito dopo un bel primo piano del simbolo della banca sponsor del film (ma c’era proprio bisogno di fare marchette così visibili?) ma capisco sempre più perché uno dei pochi geni del cinema italiano, Marco Ferreri, scelse lei e Jerry Calà (avete capito bene) per girare un suo grande film Diario di un vizio. Nessuno meglio di loro avrebbero potuto interpretare meglio i personaggi di quell'opera (scegliere il peggio per ottenere il meglio). Ma Sorrentino non è (neanche) Ferreri e la sua scelta è palesemente un omaggio alla romanità della Ferilli tanto è vero che subito dopo appare in un cameo agghiacciante l’altro simbolo della romanità coatta, Antonello Venditti. A dire il vero all’inizio ero convinto si trattasse di Corrado Guzzanti nella sua famosa imitazione ma dopo pochi secondi ho compreso che era il vero Venditti. Guzzanti è molto più reale nell’interpretare Venditti di quanto non lo sia lo stesso Venditti.

Il film scorre facendo scempio di tutte le regole cinematografiche che Sorrentino una volta conosceva. Pochissima adesione verso i personaggi visti costantemente come delle macchiette e senza mettere mai un briciolo di umanità; ma non perché si voglia spingere il tasto verso il grottesco (dispiace fare ancora paragoni ma anche Fellini è un esempio troppo lontano per questo Sorrentino) quanto per sottolineare, da parte dello stesso regista, un’umanità irrecuperabile nella sua totalità e per questo (cosa peggiore in assoluto) automaticamente assolta perché così fan tutti. A metà film cerco con lo sguardo i film di Ken Loach nella mia videoteca per farmi un po’ di coraggio e ricordarmi che avere etica nella vita è una dote ancora presente in qualcuno. Il film continua a dispiegarsi nella sua (ripetitiva) descrizione del malessere della società. Io non so più a cosa attaccarmi, penso a tutte le volte che ho scritto di Servillo come il migliore interprete italiano e di quando parlavo di Sorrentino come la grande promessa del nostro cinema. Rimango muto fino alla fine quando la voce di Gabriella al mio fianco mi ricorda di avere sottoposto la mia compagna a questo strazio di due ore. Ma lei sintetizza con una sola frase il senso di tutte queste mie parole: “E’ l’Italia che rovina le persone”. Chapeau!

Sergio


2 commenti:

  1. Ho finalmente letto la tua recensione e, nonostante avessi bene in mente la conversazione 'live' nella vostra cucina e, quindi, avessi già nota le tue opinioni, le tue parole scritte hanno avuto comunque l'effetto di aria fresca.
    Da amante del cinema con molto meno occhio, esperienza e conoscenza di te, posso dire di trovare la tua recensione semplicemente perfetta. Mi spiace solo di non averla letta in tempo, in quanto l'avrei condivisa con i miei amici commentatori sui social networks.

    Sul film, come già discusso, io l'avrei trovato uno splendido corto di 15 minuti al massimo. So che non condividi questa mia opinione, ma volevo lasciare qui un commento completo. Detto questo, mi sono ripromesso di leggere con più costanza questo tuo bellissimo blog.

    Un grande abbraccio!

    Stefano

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    1. Grazie delle parole Stefano. Un abbraccio e aggiornami sulle tue proiezioni cinematografiche libanesi!

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